La narrativa popolare ha sempre avuto una sua precisa formazione, di ammaestramento, di trasmissione dei valori, nell’ambito di una ben determinata cultura. Le azioni dei personaggi del racconto suggerivano precise norme di comportamento, positivamente giudicate. Raccontando le sue storie esemplari che vedevano premiato il giusto, il buono, il semplice, il povero e punito l’egoista. Lo sfruttatore, l’avido, l’empio – il favolatore non comunicava soltanto un’esperienza soggettiva, ma si faceva portavoce di una saggezza collettivamente riconosciuta, di una sapienza che, non avendo subito le scosse degli ultimi decenni ed ignorando la crisi dei valori e le dottrine della relatività, poteva apparire dotata di una inattaccabile stabilità.
Nelle lunghe sere d’inverno, le famiglie patriarcali della Valcamonica erano solite raccogliersi a veglia nella grande stalla; qui, mentre le donne filavano con le mitologiche cannocchie chiacchierando tra di loro, gli uomini giocavano a carte ed i più giovani provavano le canzoni per la serenata da portare alla loro giovane innamorata, i più piccini si radunavano intorno alla nonna e la pregavano di raccontare loro una storia paurosa che durasse il più a lungo possibile.
La nonna allora, dopo aver tentato qualche debole resistenza, raccogliendo sulle scarne spalle un grande scialle nero sbiadito, con gesto solenne, guardando verso la fiamma incerta del lume ad olio ed osservando che il piccolo auditorio fosse tutto attento, tirando un bel sospiro e stirando le gote non più giovani, iniziava con il fatidico: C’era una volta !
Dopo il Passo Crocedomini, là dove la strada superando i duemila metri di altitudine serpeggia per un lungo tratto, una vecchia cascina chiamata del “Caaler” dove, durante i mesi della monticazione delle bestie vivevano insieme un pastore proprietario di un gregge che contava più di cento pecore ed un mandriano che aveva in custodia altrettanti capi di bovini.
Il vaccaro era un uomo dall’animo cattivo, che scendeva in paese solo poche volte nell’ arco della stagione ed anche in quelle poche occasioni trovava sempre una scusa per litigare con qualcuno. L’unica persona con cui non riusciva a litigare era il pastore con il quale divideva la misera capanna di montagna.
Un giorno però il mandriano disse al pastore: “Se riesci a fare cento giri del laghetto con i piedi in una mastella del latte, io ti darò le mie vacche; ma se tu non ci riuscirai io mi prenderò tutte le tue pecore.”
“Si, ci stò,” rispose il pastore.
Così, preparò la mastella ed aiutandosi con un bastone, in cinque ore fece i cento giri del laghetto. Felice per essere riuscito a portare a termine l’impresa e contento per aver vinto la scommessa con i cento capi di bovini, il pastore tirò fuori i piedi dalla mastella, si presentò davanti al mandriano e disse: “Adesso mi devi dare tutte le tue bestie!.”
“Non parliamone neppure”, rispose il vaccaro.
Con il passare dei minuti la discussione diventava sempre più animata perché il pastore cercava di convincere il mandriano a mantenere la parola data mentre questi, che voleva litigare ad ogni costo, faceva finta di non capire di aver perso la scommessa e quindi anche le sue vacche. La discussione non accennava a diminuire; sicchè ad un tratto il mandriano sempre più infuriato per le insistenze del pastore afferrò un’ascia che era alla sua portata di mano e con un colpo secco recise la testa al povero pastore.
Fatto ciò, legò il corpo di quello che era stato un suo amico a due grossi macigni e lo gettò in fondo al laghetto.
La mattina seguente, si alzò di buon’ora perché voleva menare tutte le bestie, su un pianoro poco lontano dalla cascina, ma quando per aprire i recinti s’ accorse che la mandria di bovini ed il gregge del pastore ucciso erano già fuori per cui fu costretto a fare un lungo giro per cercare di rimetterle insieme. Ma la sorpresa non era ancora finita: al chiarore delle prime luci dell’alba, passò sul sentiero che costeggiava il piccolo lago e grandissima fu la sorpresa quando si accorse che, sulla sponda, c’era la testa dell’uomo al quale l’aveva mozzata con un colpo d’accetta. La guardò per qualche istante e poi, con una pedata, la ributtò nel lago.
All’alba del giorno seguente, passò ancora dallo stesso sentiero per andare a cercare alcune giovenche sbandate e, con somma sorpresa ma anche con qualche brivido che gli percorse tutta la schiena, vide che la testa del morto era ancora lì, nello stesso posto del giorno prima e, con gli occhi ancora spalancati, lo guardava come se lo volesse supplicare. Il mandriano, ancorchè sorpreso, non stette a pensarci molto: con il suo scarpone ributtò nel lago quella testa che cadendo in acqua emise un lamento che avrebbe fatto agghiacciare il sangue addosso a chiunque. Egli, invece, riprese la sua strada come se nulla fosse successo proprio nulla.
A quello che era successo pensò invece la sera quando, dopo essersi lasciato andare sul misero pagliericcio, non riusciva ad addormentarsi perché quella testa mozzata gli era sempre davanti agli occhi.
Distrutto dalla stanchezza e fors’anche dal rimorso, si appisolò per qualche ora. Si svegliò di soprassalto e madido di sudore come se qualcuno l’avesse chiamato e non riuscì più ad appisolarsi. Al nascere delle prime luci si alzò e, senza alcuna esitazione, uscì dalla baita per andare a cercare ancora, nella macchia più folta, quelle giovenche e quelle pecore che dopo tre giorni di ricerche non era ancora riuscito a riportare con le altre. Giunto però sul sentiero che correva lungo la riva dello stagno, vide ancora una volta che la testa del pastore era sempre al medesimo posto. Vinto dalla disperazione iniziò a correre senza sapere dove e giunto sul limite del burrone si lasciò cadere nel vuoto.
Ancora oggi, percorrendo la strada che dal Passo Crocedomini scende in Valtrompia all’attento turista, ai boscaioli, ai cavatori di porfido rosso e agli stessi mandriani che si spingono fin quassù per l’alpeggio su questi magnifici alti pascoli, non può sfuggire una rustica piccola edicola formata da tre muri a secco e chiusa da uno sgangherato cancelletto di legno in cui è conservato il teschio di un uomo e tanti minuscoli ex voto. Questo luogo è conosciuto, oggi, come “località Cò dè Mòrt”; un laghetto glauco come una perla caduta dal cielo guarda sorridente alla piccola cappella
“…mentre una cimba candida veleggia a un infinito ignoto d’armi e d’amori ”.
C’è chi ricorda di aver visto, durante la prima guerra mondiale e su quella via militare, dove camions ed autocarri correvano rapidi, soldati e ufficiali italiani fermarsi riverenti dinnanzi a quella cappelletta, posare un fiore di montagna e pregare sommessamente forse confidando, al teschio taumaturgico, le loro angosce e le loro speranze mentre il teschio dalle profonde occhiaie guardava lontano quasi a proteggere la verde conca e dove l’eco delle armi si spegneva.