LA BUSA DEL MATT



Là, dove il Grigna ricco di acque batte con le sue onde, poco dopo l’ansa del Dosso all’altezza di quel muraglione che sostiene l’attuale via della Ripa sorgeva, una volta, una casetta. Ma un giorno essa scomparve, portata via come un fruscello, dalla furia del torrente che aveva trascinato con sé case, fucine, persone, animali e tutto quanto aveva trovato sul suo cammino, in un unico immenso rigurgito.
Questa storia venne alla luce sfogliando il registro dei morti dell’anno 1634 in cui, con grafia nitida, precisa e sicura c’era scritto: “adì 7 luglio, morse negato nel fiume il figlio Pedretti Valentino, del quondam Pedretti Antonio, detto Alento, che faceva stranezze senza cervello, perché diventò matto nell’anno Domini 1617 ”.
Una storia assai triste che, nel capoluogo della Valgrigna, nessuno più conosce o vuole ricordare; tanto che essa non è mai stata raccontata neppure al tempo in cui, radunati nella stalla, venivano raccontate tante storie verosimili o inventate che fossero.
La famiglia di Antonio Pedretti, oltre alla casetta sulla riva del Grigna, possedeva anche un piccolo appezzamento di terreno sul Cerreto dove allevava qualche animale domestico, tagliava la legna necessaria per cucinare e scaldarsi e raccoglieva lo strame per la piccola stalla. Essa era composta da cinque persone ma, in pochi anni, erano rimasti in due a causa della pellagra (la malattia della polenta) che si era portati via, uno dopo l’altro, il papa e le due sorelline. Erano rimasti la mamma, vedova a 32 anni, ed Alento, allora di soli sei anni.
Mamma e figlio trascorrevano una vita di melanconia e di povertà. Solo nei giorni di festa essi andavano in chiesa e, una volta ogni due settimane, andavano al mercato per fare le spese. Poi, vivevano sempre soli tra il rumore assordante delle acque del Grigna, il battito dei magli delle fucine circostanti e l’ambiente profumato dei ciclamini selvatici sul Cerreto.
Erano poveri, non avevano compagnie, ma si volevano un gran bene. Il bambino amava la sua mamma di un amore immenso, quasi morboso e la mamma era altrettanto legata al suo Alento. L’amore riempiva la loro solitudine ed essi non sentivano il bisogno di altre persone. Vivevano di quel poco che ricavavano dall’orticello del Cerreto e da quel fazzoletto di terra sulla sponda del Grigna che forniva anche l’acqua necessaria. Lavoravano tutto il giorno ed alla sera, recitando il rosario, parlavano dei loro morti, nell’attesa di ricongiungersi ad essi. Si addormentavano stanchi, ma sereni per riprendere, il giorno dopo, le stesse occupazioni e gli stessi discorsi; ma, anche, con lo stesso affetto nel cuore e la stessa consolazione rassegnata delle persone che considerano le sventure e le disgrazie un dono della provvidenza.
Ma, una brutta sera di fine maggio, accadde l’irreparabile: incominciava ad imbrunire e già si vedeva qualche lucciola vagare sui prati, tutti ricchi di erbe e di fiori. La mamma disse: “Alento, vado sul Cerreto a governare le bestie ed a prendere la vanga che ho dimenticato”. Alento non ci fece caso, la mamma poteva andare e tornare in pochi minuti. Ma poi, quando i minuti passarono più del previsto, quando nel cielo apparve la luna tonda splendente e malinconica ed il blu scuro del cielo sembrava una coperta ricamata di stelle; quando capì che non più sera, ma era incominciata la notte e la mamma non era ancora tornata, il ragazzo solo con il chiaro della luna, cominciò ad avere paura.
Andò alla finestra per guardare verso il bosco, per scrutare tra le fitte e paurose ombre delle piante per cercare l’ombra di colei che tanto amava, ma non vide nessuno. Tese l’orecchio con la segreta speranza di sentire quel passo famigliare sui ciottoli del sentiero. Niente! Allora con la forza della disperazione, portò la mano alla bocca e cominciò a chiamare con tutta la forza che aveva in corpo: “mamma , mamma!….” La risposta fu il monotono, lontano canto di un cùculo ed il frinire dei grilli che prima non gli era parso di sentire. Il povero ragazzo non seppe trattenere l’ impulso di un pianto dirotto che d’improvviso era interrotto da una straziante invocazione:“ mamma, mamma !…” Fino a che, stanco e come inebetito dal dolore, non si appoggiò al davanzale della finestra e rimase lì, in silenzio.
Doveva già essere passata la mezzanotte quando, tagliente come una lama di spada e pietoso come la voce di un moribondo, all’improvviso un grido acutissimo riscosse il ragazzo che si era assopito: “Alento, Alento! Aiuto, aiuto!” Non potevano esserci dubbi, era la mamma che stava per morire. Alento credette d’impazzire e rispose con un grido che era molto simile a quello di una belva ferita: “mamma, mamma!”
E si precipitò dalla scala, corse sul sentiero acciottolato e scomparve nel bosco, con il cuore in gola e l’ansia affamata di trovare sua madre. Ma invano. Non udì più alcuna invocazione, nessuna risposta, nessun lamento nessun rumore. Lo sventurato ragazzo finì per non capire più nulla, non sapeva più da che parte andare, vagò correndo di qua e di là, inciampò negli sterpi, cadde più di una volta, si rialzò.
Aveva la faccia e le mani insanguinate, ma non sentiva il dolore, si fermava per riprendere il fiato, poi aiutato dal chiarore della luna riprendeva la sua corsa, le sue cadute, i suoi lamenti. Ad un certo punto si fermò appoggiando la schiena al tronco di un grande larice perchè non ne poteva più. Era fermo da alcuni istanti, quando sentì qualcosa che si muoveva in terra, istintivamente si tirò indietro, guardò meglio e si accorse con orrore che erano due grosse vipere. Fece un altro salto all’indietro e continuò la sua corsa per pochi minuti. Poi, uno scoramento mortale lo abbatté, si lasciò andare e svenne. Fu trovato al mattino, ancora lì in terra, da alcune donne che andavano a tagliare il fieno. Lo accompagnarono nella casa più vicina e dal suo racconto capirono, un po’ indovinarono la tragedia perché Alento non faceva che ripetere: “la mia mamma, la mia mamma!”
Per tre giorni non parlò più e non volle mangiare. Alcune persone di buon cuore andarono a trovarlo e fecero di tutto perché potesse dimenticare quanto era successo.
Le autorità del paese fecero tutte le ricerche possibili per ritrovare la donna scomparsa: palmo a palmo fu scandagliato il torrente ed il bosco fu fatto passare in lungo ed in largo, ma ogni ricerca fu vana. Si finì, allora, con il pensare che qualche brigante o un bruto avesse sorpreso la povera donna, l’avesse oltraggiata e malmenata e poi l’avesse gettata in qualche profondo burrone. Ma Alento non era convinto che le cose fossero andate così; egli, nel suo cervello che cominciava a dare i primi segni di squilibrio, era sicuro che la sua mamma sarebbe tornata.Non poteva essersene andata per sempre, lasciando solo il suo figliolo che tanto amava, che non poteva vivere senza di lei, che non lo aveva mai abbandonato.” Mia mamma ritornerà, deve tornare - ripeteva – è impossibile che non ritorni”.
E cominciò ad evidenziare, ogni giorno di più, segni di squilibrio mentale: abbandonò la sua vecchia casa in riva al Grigna e si rifugiò nella piccola grotta del Cerreto; in quel tugurio a tavola, accanto al suo piatto, metteva sempre anche quello per la mamma; davanti al focolare metteva, vicino alla sua, anche la sedia per la mamma.
Persino i primi frutti della campagna li conservava in un piatto per la mamma e quando qualcuno di essi marciva, lo sostituiva con la perseveranza di uno che era impazzito d’amore.
Ma il dramma si rinnovava al tramonto del sole. Quando le ombre della sera cominciavano a calare sulle vecchie e nere case di Bienno, Alento si metteva alla piccola finestra della grotta e lanciava il suo grido disperato: “mamma, mamma!”
Era un grido di dolore senza confini, un’ invocazione che straziava il cuore, il richiamo di un’anima distrutta, una speranza che non voleva morire. Così tutte le sere, per settimane, per mesi, per anni ed il suo piccolo tugurio in cui aveva trovato rifugio, cominciò ad essere indicato come “la busa del matt”.
Quando Alento divenne un giovane robusto e non aveva più paura del buio della notte, cominciò ad affrontare la solitudine del bosco ed anche nelle fitte tenebre girovagava per ore ed ore fermandosi, di quando in quando, a lanciare il suo lugubre lamento che nel silenzio della notte, si sentiva distintamente fino alle ultime case del paese ed ai bambini che impauriti chiedevano chi fosse, le mamme rispondevano : “è il matto del Cerreto”.
Di giorno era tranquillo, laborioso e normale in tutto quello che faceva e bastava non dirgli che la sua mamma non sarebbe mai più tornata, perché allora si infuriava e diventava pericoloso; e di ciò se ne accorse bene un bifolco che, in tono di scherno, era andato sotto l’uscio della caverna per gridargli: “Alento, è tornata la tua mamma?”
Alento divenne una belva, lo rincorse nel bosco e con un bastone lo fece pentire di ciò che gli aveva detto.
Poi, un giorno, anche Alento partì per non fare più ritorno. Da un paio di giorni pioveva come spesso succede in Valle Camonica; una pioggia non proprio torrenziale, ma fitta, ininterrotta, e quasi gelida. L’autunno si era fatto più squallido, il Grigna cresceva continuamente e le sue onde erano diventate quasi melmose. Al terzo giorno, la vecchia casa di Alento sulla riva del torrente era in serio pericolo ed allora egli scese dal Cerreto: vide la gente che, con arpioni, cercava di tirare a riva alcuni tronchi d’albero, assi, resti di misere capanne portate via dalla furia dell’acqua. Il Grigna faceva un rumore cupo, monotono e sinistro che incuteva grande spavento mentre i ragazzi, incoscienti del pericolo che correvano, si erano radunati sulle sponde quasi in segno di sfida. Anche Alento si era unito agli altri ragazzi, poco lontano dalla sua casa e guardava, con gli occhi smarriti nel nulla, la massa d’acqua che – scendendo a valle – travolgeva ogni cosa.
Guardava senza rendersi conto di ciò che stava accadendo sulla sponda opposta, con suo immenso stupore, tra un groviglio di rami, in mezzo al fiume, gli parve di vedere una donna le cui sembianze gli erano famigliari che lo chiamava con la stessa voce disperata di quella notte fatale: “Alento, Alento, aiuto!”
La stessa voce, la stessa donna. Alento non ci vide più, era la mamma che tornava. Gettò via all’impazzata la giacca sdrucita e bisunta e si lanciò nelle acque melmose; raggiunse una pianta vagante, ne afferrò un ramo e con la forza della disperazione lottò tanto fino a quando non riuscì a farla fermare alla sponda in una piccola ansa non toccata dalle grandi onde. La tensione, però, era stata tale che il ramo al quale si era aggrappato si spezzò ed un improvviso colpo d’ onda si portò via il povero matto risucchiandolo in un vortice tremendo. Tentò di riprendersi, ma lo sforzo fatto prima gli aveva tolto tutte le forze: scomparve, ricomparve più in giù e si udì ancora l’ultimo suo grido: “Mamma, mamma!”
E scomparve per sempre.
Povero Alento! In quel grido, però, non vi era più la lugubre disperazione delle altre volte, ma il timbro della gioia perché egli, finalmente, aveva ritrovato la sua mamma e si abbandonò, contento, alle onde che gli davano la morte.
Povero Alento! La sua mamma non era ritornata: ella aveva trovato la morte nei gorghi del Grigna gettatavi da mano omicida. Egli, per la sua mamma, aveva dato la mente ed il cuore, il sangue e la vita. E se non fosse perché la gente spesso si disinteressa delle tragedie altrui, sull’uscio di quella che, ancora oggi, è conosciuta come “ la busa del matt ”, mi piacerebbe scrivere:
“Qui Alento Pedretti / mostrò a tutti / in vita ed in morte / fino a che punto si deve amare una mamma / Lo chiamarono matto e fu invece un eroe ”.