Martino aveva accompagnato fino alla malga dell’ Alpe Arcina, alcuni turisti milanesi che cercavano del formaggio nostrano genuino; egli, però, sapeva bene che non sarebbe stato facile accontentare il gruppetto che si mostrava, invece, pronto e preparato a qualsiasi sacrificio pur di realizzare l’innocente desiderio. Anche perché le persone che lo accompagnavano avevano lasciato l’irrespirabile aria della metropoli lombarda ed avevano diretto in Valle Camonica il loro fine settimana proprio per cercare quel tipo di formaggio che loro avevano già gustato in passato.
L’occasione e la necessità di visitare la malga dell’Alpe Arcina, aveva convinto Martino ad accettare l’ invito e mettere a disposizione del gruppo la sua campagnola; conosceva molto bene il luogo dove, durante gli anni spensierati della sua prima adolescenza, aveva scorazzato in lungo ed in largo sotto gli l’occhio vigile del padre e dei suoi fratelli maggiori; allora, alla grande malga non si arrivava ancora con i mezzi motorizzati, ma soltanto a piedi e - nel migliore dei casi - sul dorso del mulo quasi sempre stracarico di attrezzi ed utensileria indispensabili nella vita di montagna.
La campagnola s’inerpicava lungo il sentiero ripido e sconnesso e mentre l’occhio di Martino spaziava sui verdi prati, sulla magnifica “paghera” quasi pronta per il taglio,sulle cascine sparse qua e là come branchi di pecore al pascolo, un intenso profumo di resina investiva i turisti che ne approfittavano per respirare a pieni polmoni ed immagazzinare quell’aria saluberrima che non potevano, certo, trovare a Milano.
Quando furono arrivati sullo spiazzo di prato davanti la cascina, la conca-altopiano di Arcina si presentò, ai loro occhi, in tutta la sua selvaggia bellezza dove, tuttavia, l’odio e la violenza dell’uomo avevano lasciato segni indelebili. Ed era quasi impossibile riuscire a pensare come la gente della Valle dei Magli profondamente religiosa, naturalmente buona francescanamente allegra, che ha nel sangue l’arte della fucinatura e della lavorazione del ferro, che ebbe ed ha ancora per ingaggio le strade del mondo;allora presentava chiari i segni della guerra fratricida:croci piccoli cippi, resti di fortificazioni; Bienno, Prestine, Breno, Cividate Camuno ceppi etnici alpini infiltrati da spersi Retii, barbari militi stanchi di combattere in cerca di boscaglie o di una magra terra sui costoni solivi.
Quelli della ”campagnola” in cerca di formaggio continuavano ad ammirare il paesaggio, avevano mille domande per i mandriani,curiosavano nella malga. Martino non aveva voglia di parlare, raccontare e li lasciava dire, domandare, curiosare.
A lui tornava in mente quel giorno di marzo del 1945 quando arrivò – con uno zaino in spalla, mitra a tracolla ed attraverso un sentiero – scorciatoia – sull’Alpe d’Arcina sfinito ed affamato ma felice per essere riuscito a portare a compimento la missione affidatagli dal comandante del suo gruppo. Ma ricordava chiaramente, soprattutto, Marcello un diciannovenne ragazzo salentino arruolato nel dicembre del 1944 nell’esercito del maresciallo Rodolfo Graziani, contro la sua volontà come tanti altri suoi coetanei. Aveva rischiato di essere deportato in Germania per l’addestramento militare, poi invece i suoi superiori avevano deciso di farlo restare in Italia.
Con gli altri soldati repubblichini aveva lavorato alla fortificazione della “linea gotica” ma era riuscito a fuggire perché egli non era fascista ed odiava la violenza.
Aveva passato mesi terribili in quel campo perché il comandante spesso lo faceva picchiare per punirlo: lo legava ad un palo, nudo e lo lasciava lì per ore ed ore.
Ed egli non c’è l’aveva più fatta; odiava la guerra e si era unito ai “partigiani” nella speranza che essa finisse al più presto. Subito, era sembrato a tutti buono, sincero e , fors’anche, un po’ ingenuo. Aveva parlato a lungo raccontando dei suoi cari, dei genitori e dei fratelli minori che aveva lasciato a Castrignano del Capo nel basso salento. Contadini gente povera che con i fascisti non aveva nulla da spartire.
E Martino lo aveva subito preso a ben volere, gli altri compagni lo avevano accettato volentieri perché, oltretutto, c’era sempre bisogno di uomini. Così Marcello aveva iniziato la sua nuova vita di partigiano. Ma non aveva avuto fortuna.
Quella mattina, quando lo catturarono, era di guardia. Al campo era rimasto solo perché gli altri erano di pattuglia nei boschi. Sembrava tutto tranquillo; invece, i tedeschi gli furono addosso. Lo legarono e lo trascinarono via e vano fu il tentativo dei suoi nuovi compagni per cercare di liberarlo. Ci fu, infatti, una sparatoria ed i nazisti riuscirono a fuggire per cui Marcello rimase solo ma non gli fu possibile mettersi in salvo perché era legato e non poteva correre.
Martino e gli altri stavano per correre in suo aiuto quando, non si sa come, arrivarono i fascisti che vedendo Marcello legato intuirono subito quello che era successo. Non ci misero molto, poi, a riconoscerlo perché da mesi era ricercato per diserzione. Quindi lo trascinarono via ed accusato di essere un disertore, un traditore della Patria, il giorno successivo, dopo un processo sommario, fu fucilato.
Seduto su uno spuntone di roccia ed investito dalla piena dei ricordi Martino aveva certamente dimenticato di essere arrivato in Arcina per accompagnare la comitiva milanese in cerca di formaggio. Se n’era reso conto solamente quando uno dei turisti gli si era avvicinato e lo aveva chiamato più di una volta per chiedergli se era disposto ad accompagnarli alla cascina del Merandel, un vecchio contadino di Prestine che aveva una dozzina di bestie e continuava a lavorare il latte nella maniera più tradizionale e facendo uso delle antiche attrezzature.
Polone, ol merandel, aveva accolto con grande cortesia il gruppo di visitatori e si era premurato subito di offrire del formaggio che non aveva, però, nulla di speciale ed un fiasco del solito vino “grignolino”; ma quello che aveva l’ aria di essere il capo della comitiva milanese, dopo aver invitato tutti all’ assaggio, cominciò a fare, a Martino, cento domande sull’ età, sul lavoro, sul paese di nascita, sul servizio militare. Infine, fissandolo bene, gli chiese se avesse conosciuto un ragazzo di nome Angelo che durante la guerra di liberazione era con il gruppo che operava su l’ Alpe d’ Arcina. Martino lo guardò e poi gettandogli le braccia al collo, disse: “Alberto, sei Alberto tu?”
Poi continuò: “Ma sì, Angelo è stato il mio nome di battaglia. In realtà mi chiamo Martino, sono sposato ed ho due figlie in collegio a Brescia; il figlio lavora in una delle fucine di Bienno, a lui quel lavoro gli è sempre piaciuto.”
Alberto lo guardò, Martino se ne accorse ed abbassò gli occhi: “Si, è quello nato a fine guerra alla Margiulì, ma è già sposato ed ha anche un bambino. Nonno, già, ma in gamba, vero?”
Si riabbracciarono e poi Martino chiamò: “Polone, Polone!” E parlottarono di formaggio, nel loro aspirato, duro dialetto biennese; il Marendel si era lasciato convincere e poco dopo era tornato con delle formaggelle di ottima qualità. Le fece pagare ad un prezzo piuttosto alto, ma ai milanesi sembrava di aver trovato un quarto di luna.
Poi, tutti insieme brindarono: “Salute Angelo! Ah già, ora tu ti chiami Martino, il nome vero; salute!”
Auguri Polone, vecchio vaccaro di questa splendida Alpe Arcina, dove una giovane vita si immolò per la libertà di tutti!
Ora Martino era molto grato a quei turisti con il pallino del formaggio, maniaci di quelle genuinità che diventa sempre più difficile trovare.